Oggi, al mio ristorante casalingo, ho prenotato fuori.
Un sole ritardatario che non sa più che temperature fare, un tavolino a scomparsa, date le dimensioni una striscia di stoffa blu (runner, per le erudite della nuova tavola; volere ma non posso per quelle che il lino bianco era la normalità). Volevo formaggi. Ho tradito le nove di DOP di questa terra che mi ospita da qualche decennio e, ambendo alla voluttuosa cremosità sono andata in Francia. C’è da dire che, nonostante io non ami le marmellate e le salsine con i formaggi (meglio duri e puri come i vecchi Defender), l’età mi ammorbidisce e, covando da decenni la gola per le mostarde Boschetti, mi sono fatta irretire – consenziente – da fette di mela e mele cotogne. Le mostarde tipo cremona, non me ne vogliano gli amanti/produttori, sono sempre state considerate ovvie in casa mia; e le vicentine sempre meglio accolte per delicatezza ed omogeneità di sapori. Il risultato: formaggi, tre tipi di pane tostato, le mostarde e un Pinot Bianco di Princic anno 2021.
Nella calma della colazione, lontana dalle mandrie vocianti, sguaiate e pizzaaltagliodipendenti sguinzagliate per città alta, faccio un paio di riflessioni sul mondo di chi parla e scrive di cibo.
Per scrivere di cibo, prima ancora di metterlo nero su bianco, lo devi assaggiare. Come si fa a teorizzare un’emozione che prima di tutto è fisica? Come si fa a raccontare il cibo del mese (perché poi del mese??) se non hai avuto l’infantile, istintiva, neanche fanciullesca perché lì c’è già un pensiero, curiosità del mettere in bocca e assaporare? Come si fa a descrivere ad altri ciò che tu stesso non sai come è e nemmeno ti interessa saperlo? Poi capita di leggere delle cose che sono un sunto tra Wikipedia, le home page dei consorzi di produzione e le ricette più riprodotte del web.
Attenzione, non ho detto cucinare: quello sarebbe avere 20000 punti in una volta sola. Ma assaggiare, santiddio, quello sì. E tanto. Perché ogni più banale, scontato, irrisorio ingrediente ha un tale passato da poter tranquillamente diventare un corso monografico, come quelli che seguivamo all’università in quattro gatti, tanto da farci l’appello.
Vogliamo scrivere di cibo? Bene! Ma assaggiamolo questo cibo, e non una volta, ma dieci venti cinquanta volte. Alla prossima.